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Rinuncia al TFM imponibile in capo al socio-amministratore

Il trattamento di fine mandato derivante dall’ufficio di amministratore è riconducibile ai redditi assimilati di lavoro dipendente previsti dall’art. 50, co. 2, lett. c-bis), del D.P.R. 917/1986 – somme e valori a qualunque titolo percepiti in relazione agli uffici di amministratore – sempreché tale incarico non rientri nell’oggetto dell’arte o della professione di cui all’art. 53, co. 1, del TUIR, concernente i redditi di lavoro autonomo, esercitate dal contribuente. Diversamente, gli onorari relativi al mandato di amministratore rientranti nell’oggetto tipico dell’attività di lavoro autonomo esercitata dal contribuente sono assoggettati alle disposizioni fiscali dettate per i redditi di natura professionale (C.M. 105/E/2001).

In entrambi i casi, la tassazione del TFM, come reddito assimilato al lavoro dipendente o professionale, segue il criterio di cassa, con imposizione al momento della percezione. A questo proposito, la C.M. 73/E/1994 – dopo aver confermato che tutti i crediti ai quali il socio rinuncia vanno portati ad aumento del costo della partecipazione, senza generare una sopravvenienza attiva per la società partecipata – aveva chiarito che la rinuncia ai crediti correlati a redditi che vanno acquisiti a tassazione per cassa (quali, ad esempio, i compensi spettanti agli amministratori e gli interessi relativi a finanziamenti dei soci) presuppone l’avvenuto incasso giuridico del credito e, quindi, l’obbligo di sottoporre a tassazione il loro ammontare, anche mediante applicazione della ritenuta di imposta. In senso conforme, si è espressa la giurisprudenza di legittimità, con due pronunce, riguardanti, rispettivamente, la rinuncia ad un credito derivante da:

  • compensi per royalties spettanti al socio di maggioranza (Cass. 26842/2014);
  • indennità di fine mandato spettanti a due soci-amministratori (Cass. 1335/2016).

In particolare, la Suprema Corte ha stabilito “la tassabilità in capo al socio rinunciatario del credito, anche se non materialmente incassato ma conseguito ed utilizzato, tramite la rinuncia, in favore della società e, quindi, la obbligatorietà in capo a quest’ultima di operare la ritenuta” prevista dall’art. 25 del D.P.R. 600/1973. In questo modo, secondo tale giurisprudenza di legittimità, è possibile evitare il “salto di imposta” che si verrebbe a determinare a fronte dell’intassabilità della rinuncia al credito per la società – ora disciplinata dall’art. 88, co. 4-bis, del D.P.R. 917/1986 – ed in capo al socio in presenza di un reddito tassabile in base al principio di cassa. La Cass. 1335/2016 ha affermato che la rinuncia del credito da parte del socio costituisce una prestazione che viene ad aumentare il patrimonio della società, e può comportare anche l’aumento del valore delle proprie quote sociali. In tale contesto, allora, appare corretto – ad avviso della Suprema Corte – ritenere che la rinuncia del credito da parte di un socio sia espressione della volontà di patrimonializzare la società e che, pertanto, non possa essere equiparata alla remissione di un debito da parte di un soggetto estraneo alla compagine sociale. In altri termini, la rinuncia presuppone il conseguimento del credito il cui importo, anche se non materialmente incassato, viene comunque “utilizzato”, sia pure con atto di disposizione avente natura di rinuncia. Consegue quindi che, in caso di compensi di lavoro autonomo spettanti al socio, la rinuncia operata dal socio medesimo presuppone logicamente la maturazione ed il conseguimento del credito vantato, con ineludibile soggezione al regime fiscale conseguente, in capo al socio creditore. Altrimenti operando, si permetterebbe alla società di beneficiare di accantonamenti fiscalmente dedotti nel corso dei singoli periodi di imposta che non scontano alcuna imposizione fiscale, nonostante producano l’effetto ultimo di incrementare il costo della partecipazione e, perciò, di generare reddito, che finirebbe per rimanere esente da imposizione.

Alla luce di tali considerazioni, la R.M. 124/E/2017 ha sostenuto che – nel caso in cui l’amministratore socio abbia rinunciato alle quote di TFM accantonate dalla partecipata, patrimonializzando la stessa – il credito oggetto di remissione, che s’intende giuridicamente incassato, dovrà essere assoggettato a tassazione in capo al socio persona fisica non imprenditore, con conseguente obbligo di effettuazione della ritenuta alla fonte da parte della società. Nell’ipotesi, invece, della rinuncia operata dagli amministratori non soci, non trovando applicazione l’art. 88, co. 4-bis, del TUIR, la società deve essere assoggettare a tassazione, a norma del precedente co. 1, la sopravvenienza attiva derivante dalla rinuncia al TFM, nei limiti in cui abbia dedotto gli accantonamenti effettuati in passato. In altri termini, per gli amministratori non soci, in assenza di una contropartita e non potendo incrementare il valore della partecipazione, il principio dell’incasso giuridico non si applica, ed essi non saranno assoggettati ad alcuna imposizione fiscale.